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Nuova dinamica del greggio: i sauditi conducono le danze ma a vincere non è l’OPEC

Pubblicato 08.05.2018, 12:35
Aggiornato 02.09.2020, 08:05

Il prezzo del greggio - sia quello del WTI che del Brent - è schizzato negli ultimi mesi e i trader hanno attribuito questo aumento ad una serie di fattori rialzisti, tra cui gli sforzi compiuti dai principali produttori globali per ridurre l’eccesso di scorte e l’imminente decisione del governo Trump, che potrebbe essere annunciata già questo martedì, circa la possibilità di far ritirare gli Stati Uniti dall’accordo internazionale del 2015 sulla riduzione del programma nucleare iraniano e di riapplicare le sanzioni nei confronti di uno dei maggiori produttori petroliferi mondiali.

Crudes Rise 2012-2018

Malgrado la geopolitica e l’attività del settore, si potrebbe affermare che il vero fattore responsabile della recente impennata del prezzo del greggio sia nientemeno che l’Arabia Saudita che, per il momento, si sta allontanando dal suo storico ruolo di forza stabilizzatrice all’interno del mercato energetico globale.

“L’Arabia Saudita è ora il principale falco del prezzo”, ha affermato una fonte di spicco dell’OPEC di recente. Secondo dei funzionari sauditi senior, il trentaduenne Principe Ereditario Mohammed bin Salman (spesso abbreviato in MBS), l’attuale capo del paese, sarebbe il responsabile del cambio della politica.

La politica saudita prima di MBS

Il greggio Brent, il riferimento globale, ha superato la soglia dei 75 dollari questa settimana, il massimo da quando l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di petrolio (OPEC) il 27 novembre 2014 ha fatto dietrofront sul taglio della produzione per supportare il prezzo, una decisione che ha scatenato la battaglia per la partecipazione di mercato e che ha contribuito a peggiorare il crollo con il prezzo che ha raggiunto i 25 dollari all’inizio del 2016. In quel periodo, l’allora Ministro per l’Energia saudita Ali Al-Naimi aveva affermato che bisognava lasciare che il mercato del greggio tornasse da solo in equilibrio in modo competitivo a livelli di prezzo più bassi, evidenziando la posizione saudita nel ricostruire strategicamente la partecipazione di mercato a lungo termine dell’OPEC mettendo fine alla redditività della più costosa produzione di petrolio da scisto USA.

Tuttavia, poiché i membri dell’OPEC si erano stancati dei prezzi bassi, dei minori ritorni e della riduzione delle riserve finanziarie, nel 2016 il cartello ha discusso della possibilità di ricominciare a gestire il mercato con l’aiuto della Russia e di altri paesi non membri. L’accordo per tagliare la produzione di 1,8 milioni di barili al giorno è stato inizialmente stretto nel novembre 2016 dall’OPEC, la Russia e altri nove produttori globali, comportando una ripresa del prezzo che si è avvicinato al livello di 50 dollari entro la fine di quello stesso anno.

Il patto è già stato prorogato due volte, la prima nel maggio 2017 per un periodo di nove mesi. Nel dicembre 2017, la Russia e l’OPEC hanno deciso di estendere i tagli alla produzione una seconda volta e al momento si prevede che durino fino alla fine del 2018.

Quando hanno preso la decisione, i maggiori produttori petroliferi mondiali hanno inoltre segnalato la possibilità di una chiusura anticipata dell’accordo nel caso in cui il mercato dovesse surriscaldarsi ed i prezzi dovessero salire abbastanza da permettere ai principali rivali dell’OPEC, i produttori di scisto statunitensi, di iniziare ad aumentare la produzione. E arriviamo al presente: maggio 2018. I tagli alla produzione sembrano aver virtualmente raggiunto l’obiettivo di ridurre le scorte globali portandole alla media quinquennale, mentre la produzione statunitense è schizzata al massimo storico. Tuttavia, i sauditi, leader di fatto dell’OPEC, non danno ancora segno di voler chiudere l’accordo.

La politica saudita dopo MBS

Quindi qual è stato il cambiamento che ha contribuito a questo sconvolgimento delle dinamiche del mercato petrolifero? Risposta sintetica: l’imminente offerta pubblica iniziale (IPO) della saudita Aramco, il gioiello della corona del regno.

L’IPO (considerata la più grande mai realizzata, con una stima di circa 100 miliardi di dollari di azioni che entreranno in circolazione tramite la piazza Tadawul del regno) era inizialmente in programma per il secondo semestre di quest’anno. Tuttavia, è stata rinviata al 2019 per via della volontà di far salire il prezzo del greggio prima dell’evento in modo da massimizzare la valutazione di Aramco in vista della quotazione.

I funzionari sauditi hanno reso noto che sperano di vendere una partecipazione di solo il 5% del colosso petrolifero, valutando la compagnia a più di 2 mila miliardi di dollari.

Un prezzo del greggio alto è inoltre necessario per le riforme economiche che il Principe Ereditario Mohammed bin Salman ha in programma nell’ambito del suo piano “Vision 2030”. Il regno è stato anche coinvolto in una costosa guerra al confine meridionale con i ribelli yemeniti.

Il prezzo è già rimbalzato di circa il 60% rispetto al 21 giugno 2017 - il giorno in cui MBS è stato nominato principe ereditario saudita - passando da 45 a 75 dollari.

Per ogni dollaro guadagnato dal prezzo del greggio, l’Arabia Saudita ottiene circa 3,1 mila miliardi l’anno di ulteriori proventi, secondo il Rapidan Energy Group, un gruppo di consulenza di Washington.

Brent Monthly 2016-2018

“Non c’è assolutamente alcuna intenzione da parte dell’Arabia Saudita di fare qualcosa per fermare l’impennata” del prezzo del greggio, ha affermato un funzionario governativo senior del paese. “Questo è esattamente quello che vuole il regno”.

Infatti, se MBS raggiungerà il suo scopo, il prezzo del greggio salirà ulteriormente nel secondo semestre dell’anno e potrebbe testare il livello chiave di 100 dollari al barile, con i sauditi che ignoreranno la possibilità di perdere la partecipazione di mercato sulla scena globale e chiuderanno un occhio sull’impennata della produzione di scisto USA. Dalle recenti notizie è emerso che l’Arabia Saudita vorrebbe che i prezzi del greggio salissero ancora, alimentando le speculazioni che il regno potrebbe opporsi ad eventuali modifiche dei limiti alla produzione quando l’OPEC si incontrerà a giugno.

Il Ministro per l’Energia saudita Khalid al-Falih avrebbe già dichiarato che i membri dell’OPEC dovranno continuare a collaborare con la Russia e con gli altri produttori non-OPEC per ridurre le scorte globali in esubero anche nel 2019.

MBS ha anche criticato molto l’Iran e l’accordo sul nucleare del 2015 che ha firmato con le potenze globali, definendolo un “accordo imperfetto”. Non è certo un segreto che i sauditi sarebbero ben felici di vedere di nuovo delle sanzioni nei confronti dell’Iran e del suo greggio, un’eventualità che potrebbe spingere ulteriormente il prezzo della materia prima.

Mentre i sauditi in passato hanno agito per indebolire i prezzi del greggio, quando sono saliti nel 2008 e nel 2011, la posizione di Ryad è cambiata enormemente rispetto alla volontà iniziale di insistere per le limitazioni e cercare di convincere gli altri membri che un aumento troppo rapido del prezzo del greggio avrebbe avvantaggiato i fornitori di energia alternativa, in particolare i produttori di scisto USA. “Siamo tornati al punto di partenza”, ha affermato di recente una fonte di spicco del settore in merito al cambiamento di opinione dell’Arabia Saudita. “Non sarei sorpreso se l’Arabia Saudita volesse che il greggio si attestasse a 100 dollari fino alla conclusione dell’IPO (di Aramco)”.

Al momento, sono gli iraniani e i russi ad essere più cauti sull’insistere per dei prezzi più alti, mettendo in evidenza quanto drasticamente siano cambiate le dinamiche sul mercato del greggio.

È ironico forse il fatto che il principale vincitore di questo nuovo andamento sia il settore dello scisto USA, che sta raccogliendo i frutti dell’aumento del prezzo del greggio. Gli impianti di trivellazione statunitensi attivi sono aumentati di nove unità nella settimana terminata il 4 maggio, per un totale di 834 unità, il massimo dal marzo 2015.

Effettivamente, la produzione petrolifera della nazione, grazie all’estrazione da scisto, è schizzata al massimo storico di 10,62 milioni di barili al giorno la scorsa settimana, superando i livelli dell’Arabia Saudita. Solo la Russia ne produce di più, con circa 11 milioni di barili al giorno.

E questo ha comportato un’impennata delle esportazioni di greggio USA. Ad aprile, la fornitura statunitense in Europa ha raggiunto il massimo storico di circa 550.000 barili al giorno, secondo lo strumento di controllo dei flussi commerciali Eikon di Thomson Reuters. Nel 2017, l’Europa ha ricevuto circa il 7% delle esportazioni petrolifere statunitensi, secondo i dati di Reuters, ma la percentuale è salita a quasi il 12% finora quest’anno.

Fonti commerciali affermano che i flussi USA diretti in Europa continueranno a salire, con i barili statunitensi che troveranno sempre più collocazione nelle raffinerie estere, spesso a scapito del greggio proveniente dall’OPEC o dalla Russia. È uno sviluppo considerato impensabile fino a pochi anni fa.

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