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Volatilità forex in calo? 4 fattori sembrano indicare altrimenti

Pubblicato 16.03.2018, 13:38
Aggiornato 09.07.2023, 12:32

Noreen Burke

  • Un pattern familiare sembra stare emergendo, indicando volatilità
  • Le condizioni calme del mercato nel secondo trimestre potrebbero alimentare un’ulteriore moderazione della volatilità forex
  • I timori per l’inflazione probabilmente hanno scatenato la volatilità sui mercati a febbraio
  • L’aumento del deficit commerciale con la Cina indica dove potrebbero sorgere dei rischi

Negli ultimi cinque anni, il secondo trimestre si è dimostrato essere un periodo relativamente innocuo per i mercati azionari. Se questo schema dovesse ripetersi quest’anno, probabilmente comporterà una riduzione della volatilità sul mercato del forex nei prossimi tre mesi. In un paio di studi rilasciati questa settimana, uno strategista di Bank of New York Mellon (NYSE:BK) afferma che ciò sembra essere la prospettiva più probabile. Tuttavia, vale la pena approfondire cosa potrebbe sconvolgere questo scenario.

Da quando i mercati statunitensi hanno cominciato a stabilizzarsi a febbraio, si è registrato un notevole calo della volatilità sul mercato forex, scrive Simon Derrick, responsabile delle strategie monetarie della banca.

Volatilità 21 giorni USDX

Ad indicarlo, la volatilità realizzata a 21 giorni dall’indice del dollaro USA, scesa dal 7,8% a meno del 6,2%. E questo ripete un pattern visto nei tre anni precedenti.

Sebbene il passato non sia necessariamente un’indicazione di ciò che potrebbe avvenire, questo pattern di un secondo trimestre innocuo sicuramente sembra aver retto negli ultimi cinque anni”, scrive Derrick.

Un appiattimento della curva del rendimento

L’aumento della volatilità nel 2017 differisce da quella vista nei due anni precedenti al punto da avere poco a che fare con l’aumento dell’incertezza sui mercati azionari, mentre sembra essere piuttosto collegata al cambiamento delle attitudini nei confronti del dollaro stesso.

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US Dollar Index Futures

Avendo iniziato l’anno al massimo di un decennio e mezzo, una ripresa del trend dominante verso un appiattimento della curva del rendimento, oltre ad una certa incertezza in merito alla nuova posizione del governo USA nei confronti della politica monetaria, ha comportato un’inversione del trend dell’indice del dollaro, risultando in un aumento della volatilità.

Allo stesso modo, con i mercati azionari che hanno ripreso compostezza e la curva del rendimento USA che ha ricominciato ad appiattirsi, la volatilità dell’indice del dollaro ha iniziato a diminuire, proprio come nel 2015, nel 2016 e nel 2017. L’aumento della volatilità registrato a gennaio e nella prima metà di febbraio sembra riecheggiare il pattern visto sia nel 2015 che nel 2016.

All’inizio del 2015, la volatilità dei mercati è schizzata in conseguenza al crollo del prezzo del greggio ed ai cambiamenti radicali della politica monetaria e valutaria europea (in particolare di quelle della Banca Centrale Europea e della Banca Nazionale Svizzera), mentre all’inizio del 2016 i riflettori sono stati puntati soprattutto sulla politica valutaria cinese.

Timori per l’inflazione

Nel 2017, un probabile catalizzatore dell’instabilità che ha colpito i mercati USA è stato la dichiarazione sui tassi del 31 gennaio della Federal Reserve, da cui sono emersi crescenti timori per l’inflazione, spiega Derrick.

Nella dichiarazione del FOMC si notava che “le misure di compensazione dell’inflazione basate sui mercati sono aumentate negli ultimi mesi ma restano basse”, un aggiustamento rispetto alle parole di dicembre che riportavano semplicemente che le misure “restano basse”.

2016-2018

La curva del rendimento è diventata più ripida nei giorni seguenti alla dichiarazione, alimentando una brusca discesa degli indici azionari (insieme ad un altrettanto brusco aumento della volatilità). Significativamente, sembrerebbe essere stato l’indebolimento dei mercati azionari piuttosto che il crollo della curva del rendimento ad agire come catalizzatore della successiva ripresa del dollaro e del continuo aumento della volatilità realizzata dal forex”, afferma.

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Che implicazioni ci saranno per il resto dell’anno?

Dal momento che i timori per l’inflazione sono stati la probabile causa della volatilità vista all’inizio di febbraio, è sensato ritenere che i dati sull’inflazione e il commercio diventeranno sempre più importanti nel corso dell’anno, secondo Derrick.

Per Derrick vale la pena notare che le uniche due volte in cui l’inflazione generale ha superato il 4% negli Stati Uniti nell’ultimo quarto di secolo sono state nel 2005 e nel 2008. In entrambi i casi il prezzo del greggio era schizzato nei 12 mesi precedenti così come lo yuan cinese.

Tuttavia l’economia USA è cambiata molto nell’ultimo decennio, diventando più dipendente dagli energetici. Tuttavia il deficit commerciale degli USA è rimasto sorprendentemente elevato, tra i 35 e i 50 miliardi di dollari per gran parte del decennio scorso.

Il deficit è aumentato rapidamente dall’inizio dell’anno, schizzando al 5% solo a gennaio, a quota 56,6 miliardi, il massimo da ottobre 2008. In Cina lo stesso dato è schizzato del 16,7% a 36 miliardi di dollari lo stesso mese e questo spiega perchè è importante il crollo del cambio USD/CNY dell’8,4% registrato negli ultimi 12 mesi.

Se l’inflazione importata dovesse iniziare a diventare un problema, la chiave di ciò che succederà sui mercato sarà la reazione della curva di rendimento, scrive Derrick. Se la curva di rendimento dovesse ulteriormente scendere, è probabile che (come è successo a febbraio) questo potrebbe portare un rafforzamento del dollaro ed un aumento della volatilità del mercato forex.

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I dati di martedì sull’inflazione non mostrano nulla di tutto ciò, scrive Derrick, aggiungendo tuttavia che questo pattern potrebbe cambiare nell’ultima parte dell’anno.

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