Cds: il tampone per misurare il livello di contagio delle società

 | 20.03.2020 16:17

Il rischio contagio si diffonde anche in Borsa, dal mercato delle azioni a quello obbligazionario, minando la capacità delle aziende di far fronte ai propri debiti. Il termometro per misurare lo stato di salute delle imprese messo a disposizione dei mercati si chiama cds: credit default swap. In breve il costo per assicurarsi dal rischio di fallimento di un’azienda. Più è caro il valore del cds di una società, più il mercato prezza come probabile il fallimento della società.

Banche centrali e governi lo sanno bene, in momento di crisi come questa è una questione di ossigeno. E’ necessario dare fiato alle imprese che, da un lato, vedono il flusso dei ricavi congelati dagli stop alla produzione mentre i costi, quelli fissi, corrono e bruciano cassa o aumentano il debito fino a soglie di non ritorno.

La situazione sulle Borse non diversa è diversa da quella che sta accadendo nei nostri Paesi, si mettono in quarantena intere città. Obiettivo isolare le infezioni. Le autorità monetarie intervengono sui mercati per isolare le società contagiate da una crisi di liquidità in modo da evitare un effetto domino. Non bisogna ripetere gli errori del passato: il default di Lehman Brothers che allora si trasmise a tutto il mercato del credito.

Capire il passato per prevenire il presenteNella crisi del debito del 2008, i cds delle maggiori banche americane schizzarono a temperature record. Misuravano con estrema precisione dove il contagio dei mutui subprime era più forte (Lehman Brothers, Merril Lynch, Fanny Mae e Freddie Mac erano gli osservati speciali). Pazienti che avevano un disperato bisogno di ossigeno, tanto da richiedere l’intervento diretto del Tesoro Usa. La storia è nota. In una notte convulsa, le massime autorità monetarie scesero in campo decidendo di salvare Merryll Lynch fusa in Bank of America e mandare al patibolo Lehman Brothers, simbolo degli eccessi del mercato dei derivati.

Oggi nome e cognome di alcuni osservati speciali li ha già resi noti il presidente Usa, Donald Trump. Le compagnie aeree, i produttori come Boeing e società che si occupano di crociere e viaggi, a cui si aggiunge General Electric. “Non le faremo fallire!”. Sul piatto il Tesoro americano ha già messo 60 miliardi di dollari. La ricetta è identica al passato, acquisto di commercial paper, fino alla nazionalizzazione come avvenne per i due colossi delle riassicurazione sui mutui Freddie Mae e Fanny Mac rivendute, in parte, dopo qualche anno dal tesoro Usa con lauti guadagni. Non si può dire lo stesso per gli azionisti. L’intervento della Stato infatti ha avuto un costo, mega aumento di capitale a prezzi stracciati, talvolta azzerati. E’ quello che si vorrebbe evitare oggi. Ma in più, rispetto al passato, ad essere sull’orlo della graticola non sono solo le società finanziarie, il problema liquidità si allarga a quelle industriali i cui costi fissi in assenza di ricavi minacciano davvero di prosciugare le linee di credito.

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In Usa il problema è già noto. Qui da noi soprattutto in Italia la situazione è diversa. Oggi come allora non sarà lo stato a intervenire. Mancano i soldi. Nella crisi del 2008 le maggiori banche italiane furono costrette a una serie di aumenti di capitale e spalmare le sofferenze sui crediti in più anni per digerirle, un problema che si è protratto fino allo scorso anno.

Oggi bisogna intervenire prima evitare che i default si allarghino, per questo misurare la temperature con i cds alle maggiori società del nostro listino ci aiuta a capire chi ha le spalle solide. Lo abbiamo fatto scoprendo che in Europa le nostre banche sono ancora nel mirino. La situazione però come mostrano i grafici sotto è più tranquilla rispetto al 2008. In questa tabella mostriamo i cds che a livello europeo hanno registrato le maggiori variazioni nell’ultimo mese.