Inflazione da costi e da domanda. I mercati su muovono diversamente

 | 13.09.2022 09:17

L’inflazione USA è diversa da quella dell’Europa, molto più insidiosa

Se le stime di andamento economico e di inflazione dovessero essere corrette, si confermerebbe il raggiungimento del picco di inflazione negli USA (9,1% di giugno) e l’ulteriore crescita in Germania e probabilmente in tutta l’Europa. Come sappiamo, ci sono due componenti che trainano la crescita dei prezzi: la crescente domanda di beni e servizi in uscita dalla pandemia e i prezzi dell’energia. Per capire quanto pesano le due componenti, si fa riferimento all’inflazione di fondo (core), togliendo dal dato complessivo la componente più volatile dei prezzi legata all’energia e ai beni alimentari. L’inflazione di fondo nell’area dell’euro al giugno scorso era pari al 5% (8,9% il dato complessivo), mentre negli Stati Uniti l’inflazione di fondo era pari al 7,2% (9,1% il dato complessivo). In altre parole l’aumento del costo dell’energia e dei beni alimentari spiega quasi la metà dell’inflazione europea, mentre solo un quinto di quella USA. L’area dell’euro si trova quindi di fronte a un’inflazione più da offerta che domanda, mentre negli USA si tratta di una classica inflazione da domanda di beni e servizi.
 
Sull’inflazione da costi, le banche centrali hanno le armi spuntate
Come noto, l’inflazione da offerta non si può combattere alzando i tassi di interesse (non c’è la necessità di rallentare l’economia), ma cercando di “sterilizzare” la componente che più sta facendo aumentare i prezzi (l’energia). Il rischio è infatti quello che un rialzo prematuro e veloce dei tassi provochi una frenata economica eccessivamente lunga e profonda, fino ad arrivare alla recessione. Ecco perché la FED e la BCE hanno deciso di attuare politiche monetarie differenti. La FED ha iniziato da mesi ad alzare i tassi d’interesse e lo sta facendo in maniera molto più rapida e aggressiva del previsto: tra annunci ed aumenti, nel frattempo il PIL è risultato in flessione negli ultimi due trimestri. La BCE invece ha annunciato solo il 21 luglio il primo rialzo, dopo la fine dei massicci interventi espansivi sul mercato.
 
La sterilizzazione delle cause inflattive dipende dai Governi
In parte correttamente, la BCE ritiene che il rischio nell’alzare troppo presto i tassi sia maggiore rispetto ai danni causati dall’inflazione. Il problema è che l’azione di sterilizzazione non dipende dalla banca centrale ma dai governi, i cui tempi di reazione sono non brevi. Da qui si capisce anche perché nei negoziati internazionali l’Italia abbia spinto molto per avviare una discussione sul tetto al prezzo di gas e petrolio. Tetto che consentirebbe di calmierare una buona metà dell’inflazione.
 
La BCE ha tuttavia un compito ulteriore rispetto alla FED
La BCE deve anche tenere sotto controllo gli spread di rendimento fra i diversi paesi. Il problema che sta emergendo con forza è che in un contesto generale di rialzo, i tassi di rendimento per esempio dei BTP stanno crescendo più velocemente rispetto ai Bund tedeschi, ma anche rispetto ai Bonos spagnoli. La ragione è il minore acquisto di titoli da parte della BCE (praticamente l’unico acquirente del debito Italiano durante il picco della pandemia) nel rispetto della mutata politica monetaria. Il rischio di frammentazione che si va creando dovrebbe essere mitigato dal TPI e dal reinvestimento dei titoli in scadenza acquistati nell’ambito del programma Pepp (1.750 miliardi di euro circa) con l’obiettivo di medio periodo di avere un’unica curva Europea dei rendimenti. La BCE ha più volte sostenuto di agire con flessibilità. Detto più francamente, in realtà si naviga a vista.
 
 

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