Alessandro Balsotti | 20.03.2019 09:20
Mentre attendiamo sviluppi su vari fronti (Brexit, Federal Reserve, flash PMI europei) la volatilità continua a scenderedagli elevati livelli che avevano caratterizzato la fine del 2018. È principalmente questo il fattore che sta contribuendo a supportare i mercati azionari(e altre ‘asset rischiosi’),che lentamente ma inesorabilmente riesconoa migliorare i massimi di periodo quasi ogni giorno.
Bassa volatilità. È un ritrovato scenario ‘Goldilocks’, quasi impensabile fino a poco più di due mesi fa, quello che si sta concretizzando giorno per giorno sui mercati finanziari. Il fattore preponderante è stata la proattività concui la Fed ha mostrato la sua disponibilità a voler prolungare il ciclo a qualsiasi costo,approfittando della libertà d’azione (leggasi ‘atteggiamento paziente’) concessa dalle forze deflattive secolari positive (tecnologia) e negative (demografia, dimensione del debito) che appaiono sempre più difficili da negare man mano che passano gli anni. Quasi tutte le altre banche centrali non possono che adeguarsi anche se appare sempre più probabile come due delle più importanti (ECB e BoJ) abbiano ormai perso la loro finestra di normalizzazione prima delle fine di questo ciclo economico.
La price-action appare chiaramente guidata da strategie passive ed algoritmiche (strategie risk-partity, fondi con target di volatilità fissa) che in maniera pro-ciclica aumentano gli acquisti al diminuire della volatilità, per il disappunto della tradizionale gestione discrezionale/attiva che mediamente ha trovato pochi motivi fondamentali per farsi convincere a partecipare ai rialzi al cospetto di dati economici che continuano a risultare tra il deludente e il preoccupante.
Federal Reserve. Non sarà un FOMC atteso spasmo dicamentema con la virata di Powell risultata centrale nel propagare una narrativa ‘bullish’in questo inizio di 2019 vale comunque la pena sintonizzarsi sull’annuncio della più rilevante banca centrale del pianeta, in arrivo domani sera. L’asticella per battere delle attese (dovish) ormai consolidate, dopo due mesi di comunicazione in questa direzione,sembra parecchio alta. I DOTs (vedi grafico) pubblicati in dicembre, quando ancora la volontà di normalizzazione dell’accomodamento monetario sembrava intatta, indicavano (utilizzando il famoso DOT ‘mediano’come riferimento) 2 rialzi per il 2019 e1 per il 2020.
Ora, con una curva che non vede rialzi anzi sconta qualche probabilità che un taglio possa arrivare tra 2019 e 2020, è probabile che i membri del comitato si aggiustino proponendo 1 rialzo nel 2019 e nessuno nel 2020, ma è quasi impensabile che possano allinearsi al mercato togliendo completamente le prospettive di un rialzo, pur limitato e non imminente, dalle proiezioni. Anche sul fronte del Quantitative Tightening sarà difficile fornire sorprese positive con gli analisti ormai convinti che in tempi brevi (forse già domani) verrà sancita la volontà di fermare la riduzione delle stato patrimoniale già quest’anno, probabilmente nel Q4.
Più interessante sarà evincere chiarimenti su quali possano essere le evoluzioni in grado di stimolare nuovamente la Fed a una maggiore proattività rialzista nei prossimi mesi. L’inflazione sembra essere l’unica variabile in grado di far perdere la pazienza ai policy-makers, secondo la comunicazione arrivata recentemente dalle voci ‘pesanti’ del FOMC (Powell, Clarida, Williams). In quest’ottica la conferenza stampa del Governatore sarà scrutinata con particolare attenzione.
Dollaro. In caso le aspettative dovish vengano rispettate (batterle come dicevamo appare difficile)il biglietto verde potrebbe accusare qualche perdita. Sul cross EUR/USD i tempi sembrano infatti maturi per rompere, al rialzo, il canale discendente evidenziato nel grafico sotto.
Brexit update. Nella nostra saga preferita irinvii (e non solo della Brexit stessa) non sono mai mancati e anche questa settimana ne sta quasi certamente arrivando un altro. È molto improbabile che oggi (e anche domani) il cosiddetto MV3(il terzo tentativo di ratifica dell’accordo-May a mezzo del ‘Meaningful Vote’) venga sottoposto al giudizio del Parlamento. Il Primo Ministro vuole tentare nuovamente solo avendo una ragionevole possibilità di portare a casa il risultato. Qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta per quanto riguarda la compattezza della sua maggioranza. Da un lato fervono le trattative con gli unionisti del DUP, dall’altro qualche nome senior tra gli hard-Brexiteers (Ester McVeigh, Ian Duncan Smith, David Davies, Jacob Rees-Mogg) ha mostrato una qualche disponibilità a lasciarsi convincere. Di fronte allo spettro di un lungo rinvio concesso dall’Europa e a maggiori possibilità che il momento dell’uscita si allontani indefinitamente (o per sempre se si arrivasse a una nuova consultazione referendaria e vincessero i Remainers) qualcuno sta comprensibilmente cedendo al compromesso di un’uscita più morbida rispetto ai desiderata e corredata dal rischio prospettico di risultare inefficace a causa della famigerata backstop irlandese. Ma i tempi di ‘conversione’ non sono immediati e il tempo per Theresa May è limitato dal momento che giovedì qualsiasi negoziazione politica domestica dovrà fermarsi per 36 ore al cospetto del Consiglio Europeo (21-22 marzo).
Qui la palla passerà all’Europa che dovrà concedere un rinvio con l’appoggio unanime dei 27 (ieri l’Italia è sembrata la nazione più riottosa anche se poi l’intenzione di porre il veto è stata smentita da fonti ufficiali). Concedere un rinvio breve, per permettere l’esecuzione legislativa, sarà un gioco da ragazzi se laMay si presenterà con un accordo ratificato. Ma questo scenario sembra al momento altamente improbabile. Che di tipo di rinvio - a) breve fino a fine giugno; b) lungo di 9 - 21mesi – verrà concesso e a quali condizioni (che non possa essere un assegno in bianco è stato detto ripetutamente nei giorni passati) resta una variabile incerta anche se molte dichiarazioni e indiscrezioni sembrano indicare che l’alternativa più gettonata sia un’estensione lunga in grado di dare una bella rimescolata al mazzo della Brexit, presumibilmente a mezzo elezioni anticipate e/o un secondo referendum. Questo tipo di scenario sarebbe anche quello più indicato per consentire al Primo Ministro di forzare la mano ai ribelli della sua maggioranza in un ultimo e disperato voto settimana prossima. Eventualmente Theresa May potrebbe provare ad attingere, per compensare il mancato voto dei più irriducibili dell’European Research Group (una ventina), ai più convinti sostenitori di un’uscita tra i laburisti. Che però daranno il loro voto contro la volontà del proprio partito solo con la certezza della vittoria (nessuno vuole ribellarsi per portare pure a casa una sconfitta). Fino all’ultimo respiro, restate sintonizzati...
La sterlina intanto mantiene i guadagni delle ultime settimane nonostante l’evidente incertezza. Un segnale che il mercato è abbastanza convinto (correttamente a mio avviso) di come i due esiti possibili siano una ratifica dell’accordo May o un rinvio, mentre l’uscita senza accordo rappresenti un tail-risk a probabilità minimale. Dai livelli attuali è però probabile che un rinvio lungo in grado di far presagire un ricorso anticipato alle urne, innescherebbe qualche visibile perdita per la GBP a fronte del rischio non marginale di una vittoria di Corbyn con il suo manifesto poco ‘business-friendly’.
Per vostra curiosità propongo qualche percentuale estrapolata dalle quote dei bookmakers (fonte Oddschecker, ringrazio il sales desk di Nomura):
- Passaggio dell’MV3: 29%
- Un secondo referendum: 29%
- Elezioni anticipate nel 2019: 40%
- Estensione del articolo 50 oltre il 29 marzo: 85%
- Uscita senza accordi il 29 marzo: 15%
- Revoca unilaterale dell’art. 50: 26%
Il desk rimane come sempre a disposizione per ulteriori approfondimenti
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