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Stress di primavera

Pubblicato 26.03.2018, 11:07
Stress di primavera
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Wall Street va a testare i minimi di inizio febbraio mentre dal mercato interbancario arrivano segnali di nervosismo, con il Libor sul dollaro che indica un deterioramento della fiducia.

Cominciamo subito a dire che, contrariamente a quanto ci raccontano i titoli di giornali e tv, la guerra dei dazi di Trump con la Cina c’entra poco o nulla con quello che è successo a Wall Street settimana scorsa, dove è andata in scena la replica di fine gennaio-inizio febbraio. Lo S&P 500 si è fermato una manciata di punti sopra i minimi del 2 febbraio mentre il Dow li ha bucati. La media mobile a 200 giorni, che costituisce il supporto più solido, non è stata ancora infranta, ma di pochissimo. C’entra poco anche il rialzo dei tassi sui Fed Funds da ¼ di punto con cui Jay Powell ha inaugurato la sua presidenza. Nessuno prevedeva che facesse una cosa diversa, il comunicato è stato parco di guidance, in conferenza stampa ha declinato nome e numero di matricola. La realtà è che dopo un gennaio irrazionalmente esuberante, il mercato ha preso un’altra direzione, il ‘Toro si è seduto’, come scrive FinanciaLounge nell’ultimo numero di Easy Watch che chi ci segue ha ricevuto martedì scorso nella sua e-mail, e dal galoppo è passato a un movimento laterale, come se un torero invisibile gli sventolasse davanti un drappo rosso che gli impedisce di andare avanti.

SE LA FIDUCIA VACILLA

Il drappo ha il segno del dollaro su un lato e quello dei tassi interbancari sull’altro. Sul biglietto verde si sente dire tutto e il contrario di tutto, c’è chi lo vede proiettato verso il basso, puntare verso 1,30 su euro, e chi lo vede pronto a riprendere la corsa che aveva iniziato sull’onda della vittoria di Trump a fine 2016, che lo aveva portato in vista della parità con la moneta unica. I tassi interbancari invece, per la precisione il Libor a 3 e 6 mesi sul dollaro, si muovono in una sola direzione: nord. Il Libor è quello che si fanno pagare le banche per prestarsi soldi tra di loro e far quadrare i conti della liquidità. Non incorpora attese sull’inflazione o sulla velocità con cui la Fed alza i tassi, esprime semplicemente la fiducia reciproca delle banche l’una nell’altra, visto che questi prestiti non hanno collaterale. Lo spread del Libor a 3 mesi di solito si colloca 10-15 punti base sopra il tasso overnight. Da qualche settimana questo spread si è allargato fino a superare i 50 punti, sempre parlando di Libor sul dollaro. Non è allarme rosso, nel dopo-Lehman era schizzato oltre i 360 punti, ma è abbastanza da causare qualche nervosismo. Il movimento del Libor è stato notato anche in Italia da un importante giornale finanziario, ma viene letto nel contesto della narrativa dell’effetto Trump. Invece potrebbe segnalare qualcosa di diverso, che riguarda le banche.

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IL PERICOLO SI CHIAMA STRESS

C’è in giro qualche grossa banca, magari europea o asiatica, che ha problemi di liquidità? Diciamo che qualche linea di febbre, da qualche parte, lo spread la sta segnalando. Va sottolineato che il Libor è il tasso base a cui sono legati una miriade di prodotti finanziari e prestiti in giro per il mondo, per la gran parte denominati in dollari, come ad esempio prestiti a leva, swap sui tassi, moltissimi derivati. Bloomberg stima che l’importo nozionale di tutti gli strumenti finanziari legati nel pianeta al Libor ammonti alla cifra astronomica di 350.000 miliardi di dollari. Lo stress è il nemico mortale di questo mercato, e anche solo il dubbio che possano esserci controparti alle prese con problemi di liquidità basta a far alzare la guardia. In una recente nota ai clienti in Asia, Morgan Stanley (NYSE:MS) nota che il Libor sul dollaro a sei mesi ha raggiunto il 2,3%, sopra il tasso di inflazione USA, ormai in vista del rendimento del titolo del Tesoro a 5 anni, che viaggia al 2,6%. Questo vuol dire un costo del debito sempre più elevato per gli emittenti emergenti, che pagano un premio più alto rispetto a quelli dei paesi sviluppati, passato da 290 punti base a fine gennaio agli attuali 320.

IL CARTOMANTE VEDE IL DOLLARO FORTE

Torniamo al dollaro. Su Seekingalpha un investitore che si cela dietro lo pseudonimo di ‘Fortune Teller’ propone una chart che mostra la correlazione tra il Libor sul dollaro e lo stesso biglietto verde, che si muove in sintonia ma con un ritardo di circa 3 mesi. Basandosi su questa correlazione il nostro ‘cartomante’ prevede un forte movimento del dollaro al rialzo rispetto alle principali valute, a cominciare dall’euro, per la parte restante del 2018. A supporto della tesi l’avvicinamento della conclusione del Quantitative Easing della BCE, che potrebbe non trovare facilmente chi la sostituisca negli acquisti di bond europei, che potrebbero soffrire un’ondata di vendite con conseguente uscita di capitali dall’euro. Ovviamente è facile trovare chi la pensa in modo diametralmente opposto, come lo strategist valutario di Deutsche Bank (DE:DBKGn) George Saravelos secondo cui l’euro potrebbe andare a testare 1,30 dollari in corso d’anno, o il suo omologo di BMO Capital Market Stephen Gallo, secondo cui l’impatto dei rialzi della Fed sulle quotazioni del dollaro si è ormai esaurito.

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BOTTOM LINE

Il cammino del pianeta verso la normalizzazione monetaria è ancora lungo e forse accidentato. L’America è partita per prima ed è ora oltre metà strada, la Fed ha ricostruito buona parte dei margini per poter allentare in caso di recessione, mentre la politica ha ripreso in mano le redini dell’economia con la riforma fiscale. L’Europa è partita tardi, a causa degli errori sciagurati del signor Trichet quando era alla guida della BCE, ed è andata avanti solo grazie alla determinazione di Mario Draghi, che ha saputo resistere all’ottusità ideologica dei suoi detrattori tedeschi. Intanto le economie vanno, ma forse hanno toccato il picco del ciclo di espansione. E il mercato sta prendendo le misure alla nuova situazione.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)



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