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INSIGHT - L'Italia non è un Paese per giovani chef

Pubblicato 27.11.2023, 13:57
Aggiornato 27.11.2023, 14:00
© Reuters. Lo chef Davide Sanna lavora nella cucina di Piccola Cucina nel quartiere SoHo di New York, Stati Uniti, 22 novembre 2023.  REUTERS/Brendan McDermid

di Antonella Cinelli

ROMA (Reuters) - Come molti giovani italiani, Davide Sanna ha scoperto la passione per la cucina e ha deciso di diventare chef. Ma per farlo, si è trasferito a New York.

Per quattro anni, a partire dai 19 anni, Sanna ha frequentato diverse cucine tra la Sardegna, dove è nato, e il nord Italia. Ma lavorava 60 ore a settimana per portare a casa 1.800 euro al mese nel migliore dei casi. Durante l'intensa stagione estiva, gli capitava di stare ai fornelli per due mesi senza un giorno libero.

Poi un collega lo ha messo in contatto con un ristoratore che cercava cuochi a New York, racconta Sanna, 25 anni, che ha accettato senza pensarci due volte.

Da un anno lavora alla Piccola Cucina, un ristorante italiano nello sfarzoso quartiere SoHo di Manhattan, sede di boutique e gallerie d'arte di grido. A New York arriva a guadagnare 7.000 dollari al mese, lavorando 50 ore alla settimana.

"Qui ci sono contratti regolari, niente 'nero'", spiega Sanna. "E se lavori un minuto in più, ti pagano. In Italia non è così".

Il cibo italiano è famoso in tutto il mondo, ma molti giovani cuochi di talento, che sperano di fare carriera nel loro Paese, si ritrovano a fare i conti con salari bassi, mancanza di tutele e scarse prospettive. Dal lancio della moneta unica europea, 25 anni fa, l'Italia è stata l'economia più debole della zona euro.

Chef stellati come Massimo Bottura, che gestisce l'Osteria Francescana di Modena, stanno reinventando la cucina italiana. Tuttavia, data la sua ricca tradizione culinaria, l'Italia è probabilmente sottorappresentata se si guardano i ristoranti di alto livello: i tre stelle Michelin (EPA:MICP), il massimo riconoscimento della prestigiosa guida, sono 13, lo stesso numero della Spagna. Il Giappone ne ha 21, la Francia ne conta 29.

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L'attuale fuga degli chef italiani a causa delle difficili condizioni in patria non è un fenomeno nuovo.

Gli italiani hanno iniziato a portare pizza e pasta in tutto il mondo durante l'emigrazione di massa alla fine del XIX secolo. La popolarità della cucina italiana in Europa e negli Stati Uniti è cresciuta con l'arrivo di un maggior numero di immigrati dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Ma il numero di giovani italiani che lasciano l'Italia per cercare lavoro è in costante aumento da decenni - anche se la tendenza si è brevemente interrotta con la pandemia. L'emigrazione e il basso tasso di natalità hanno contribuito a una crescente crisi demografica.

"TRA CINQUE ANNI? NON IN ITALIA!"

Roberto Gentile, chef siciliano di 25 anni, negli ultimi due anni ha cucinato piatti francesi a Le Suquet, un due stelle Michelin vicino a Tolosa, dopo aver lavorato in precedenza in Gran Bretagna e Spagna.

"Dopo aver fatto esperienza all'estero e avere raggiunto un livello elevato, ci si aspetterebbe di tornare con certe condizioni di ruolo o stipendio, ma questo non accade", spiega Gentile. "Dove mi vedo tra cinque anni? Non in Italia!".

Giorgia Di Marzo, 36 anni, ha deciso di rischiare e di tornare in Italia nel 2018, dopo aver lavorato per otto anni in Gran Bretagna come chef fino a raggiungere una posizione manageriale.

In un Paese - unico in Europa - che al netto dell'inflazione ha visto diminuire i salari negli ultimi 30 anni, le hanno offerto 1.200 euro al mese per lavorare 50 ore a settimana in un ristorante di Milano.

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Di Marzo allora ha aperto un ristorante nella sua città, Gaeta. Per ritrovarsi però ben presto in difficoltà.

L'anno scorso, l'aumento dei costi l'ha costretta a chiudere per tre mesi durante la bassa stagione, e non ha ottenuto un prestito in banca, con il settore considerato a rischio dopo il Covid.

"Rimango a galla, posso offrire solo contratti stagionali", racconta. "Non posso garantire il lavoro ai miei dipendenti tutto l'anno".

Mangiare fuori fa parte della vita quotidiana in Italia, che conta 156.000 tra ristoranti e punti di ristoro da asporto, seconda in Europa dopo la Francia, stando ai dati del gruppo internazionale di ricerca industriale IbisWorld.

Ma il saldo tra aperture e chiusure di nuovi ristoranti è negativo da sei anni secondo la Fipe, la federazione italiana dei pubblici esercizi.

"IN NERO"

Per molti ristoratori, la risposta è assumere 'in nero'. Il lavoro sommerso rappresenta circa un quinto della produzione del settore privato italiano, ben al di sopra della media Ue che è del 15%, secondo le statistiche dell'Autorità europea del lavoro (Ela).

I dati economici italiani mostrano che il lavoro sommerso è particolarmente diffuso nel settore dell'ospitalità.

Non è un mistero che in molti ristoranti i piatti, anche i più tradizionali, siano spesso preparati da immigrati sottopagati.

Uno di questi è Julio, un peruviano di 31 anni che preferisce non rivelare il suo cognome non avendo un regolare permesso di lavoro.

Prepara pizza e pasta in un ristorante di Roma, lavorando "48 ore a settimana per 1.400-1.600 euro al mese, ovviamente in nero".

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"LA CUCINA NEL SANGUE"

Francesco Mazzei, 50 anni, si è formato come chef nella sua regione, la Calabria, e poi a Roma, prima di partire 27 anni fa per Londra, dove è arrivato "senza nemmeno i soldi per le sigarette".

Per due decenni ha affinato il mestiere in Gran Bretagna e in giro per il mondo, e nel 2008 ha aperto 'L'Anima (BIT:ANIM)', un ristorante di successo nel distretto finanziario di Londra.

Questo ha dato il via a una carriera che lo ha visto aprire altri ristoranti a Londra e a Malta e affermarsi come imprenditore e consulente per la ristorazione.

"Non avrei mai potuto fare tutto questo in Italia", racconta a Reuters. "In Inghilterra hai la possibilità di fare business, un cuoco non ti costa il doppio di quanto lo paghi".

L'alto costo del lavoro, spiega Mazzei, è tra i motivi per cui i giovani cuochi in Italia portano a casa la metà dello stipendio rispetto ai coetanei in Gran Bretagna, pur lavorando più ore.

I britannici sono diventati esperti di cucina italiana imparando anche a conoscere le differenze regionali, dice Mazzei, che preferisce assumere cuochi italiani per soddisfare una clientela sempre più esigente.

"Noi italiani abbiamo la cucina nel sangue. Siamo l'unico popolo al mondo che a pranzo chiede 'cosa mangiamo questa sera?'".

IL MINISTERO DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE

Il governo di destra della premier Giorgia Meloni ha cambiato il nome del ministero dell'Agricoltura, che ora è anche della Sovranità alimentare, nell'ambito di una serie di iniziative per promuovere l'identità nazionale.

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Il titolare del ministero, Francesco Lollobrigida, ha proposto a marzo di istituire una task force di assaggiatori per monitorare gli standard di qualità dei ristoranti italiani nel mondo.

Ma il governo ha anche favorito le forme di lavoro temporaneo e informale che affliggono il settore della ristorazione in Italia, e si oppone alla richiesta di un salario minimo.

Antonio Bassu, cuoco sardo di 28 anni che lavora in un ristorante di alto livello a Barcellona, dice che in Spagna gli stipendi sono più bassi di quelli del Nord Europa, ma le condizioni di lavoro sono ancora decisamente migliori di quelle italiane.

Uno chef in Spagna può aspettarsi un contratto regolare a tempo indeterminato per 40 ore settimanali con due giorni di riposo, a differenza dell'Italia.

"Qui non devi pregare per ottenere quello che ti spetta", dice.

(Ha contribuito Gavin Jones, editing Andrea Mandalà)

Ultimi commenti

tasse e burocrazia a tutti i livelli, fanno bene ad andare da un altra parte lavorare qui per mantenere sta pletora di fankazzisti
In Italia siamo in 60 milioni e lavorano circa in 22 milioni. Quando 1 lavoratore deve mantenere altre 2 persone nella nullafacenza totale, è inevitabile che lo stipendio netto sia semplicemente patetico.
L' Italia è solo un Paese di ink. .
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